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Biografia

 

 

«Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia» (Mt 7,24–25).

 

«Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25,23).

 

Avvertenze

 

Per favorire la lettura e la comprensione del testo, le meditazioni di Domenico Blasucci, le testimonianze dei suoi contemporanei e l’affermazione del Papa che l’ha proclamato Venerabile, sono trascritte in corsivo, con il linguaggio e lo stile del tempo, e sono evidenziate in grassetto.

 

La figura e l’opera del Venerabile Domenico Blasucci

che, nella penitenza, nella povertà e nella sofferenza,

fece la Sua vita “dolce, e a Dio cara”

        

Domenico Blasucci nasce a Ruvo del Monte, in provincia di Potenza e Diocesi di Melfi–Rapolla–Venosa, il 5 marzo 1732, nella casa situata in uno dei vicoli del centro storico, dall’1 ottobre 2006 a lui intitolato, da Nicola e Maria Antonia Carnevale. L’ambiente familiare è modesto, ma laborioso e sentitamente cristiano. La mattina seguente riceve il Battesimo nella Chiesa Parrocchiale del paese.

A pochi mesi è in grave pericolo di vita. Suo fratello già si reca in Chiesa per invitare il sacrestano a dare il segno della campana, tipica usanza alla morte dei bambini, quando Domenico recupera miracolosamente la salute per l’intercessione di san Francesco Saverio, di cui la mamma è devotissima.

Nel 1735, a soli tre anni, rimane orfano di padre, insieme a tre fratelli e sei sorelle. L’educazione è curata dalla madre, dalla quale apprende l’amore per la preghiera e per il sacrificio, mentre l’istruzione e la formazione religiosa sono affidate a tre sacerdoti, di cui due zii materni, e ad un cugino suddiacono. Il piccolo cresce disegnando l’Ostia, modellando le statue dei Santi, disponendo gli altarini e imitando i riti religiosi. I parenti, i vicini di casa e i conoscenti della sua famiglia, accorrono a osservarlo e l’ammirano con grande stupore. Gli amichetti, coinvolti dalle sue gesta, lo imitano con tanto incanto e con tanta meraviglia.

Avverte il primo segno vocazionale a quindici anni quando a Ruvo del Monte giunge un padre Minore Conventuale per la predicazione. La vocazione si rafforza ancor più quando, nel giugno del 1748, giungono i Missionari di san Vincenzo de’ Paoli. Il Blasucci, che ha solo sedici anni, ascolta con intenso interesse le predicazioni dei Frati e sente vivo il richiamo della vita religiosa. Chiede d’entrare nell’Istituto vincenziano, così come fa l’anno prima con i frati conventuali, affermando: “non posso non seguire la voce di Dio che mi chiama”, ma il parere negativo della madre e le difficoltà economiche l’obbligano al lavoro dei campi.

Il suo coinvolgimento nell’apostolato per la salvezza delle anime si manifesta, con crescente ardore, quando a casa della zia incontra il sacerdote don Lorenzo Fungaroli di Caposele, in provincia di Avellino. Don Lorenzo descrive al giovane, con trasporto e ammirazione, l’opera dei Missionari della “Congregazione del SS. Redentore”, di recente fondata e diretta da sant’Alfonso Maria De Liguori, che si sono stabiliti nel Santuario di Materdomini a Caposele. È una vera rivelazione per Domenico che, attratto dal loro carisma e dalla loro attività apostolica, prova uno slancio d’amore verso il Signore che, sempre di più, adora, loda e glorifica. Pratica delle piccole penitenze e dei digiuni. Ricerca e studia le opere di sant’Alfonso, particolarmente le “Massime Eterne”, le “Visite al SS. Sacramento” e le Canzoncine Spirituali”, nonché la “Novena” di santa Teresa. Sceglie come suo protettore san Vincenzo Ferreri. È così assorto nella preghiera che gli si formano delle piaghe alle ginocchia. È conquistato da Colei che, con amore, ha donato al Signore il suo grembo per l’incarnazione dell’unigenito Figlio di Dio, il Redentore del mondo. Desidera fortemente farsi accettare dai Liguorini e, a tal fine, con sincera devozione e fiducia invoca l’aiuto della Beata Vergine Maria, perché sostiene: “è quello un favore, che mi aspetto da Lei solamente”.

Partecipa, con particolare fervore, alla novena in onore dellImmacolata Concezione nel Monastero dei Conventuali di san Francesco a Ruvo del Monte, nel dicembre 1749. Superati gli ostacoli di natura economica, il 21 dicembre 1749, parte per la Casa religiosa di Ciorani di Mercato San Severino, in provincia di Salerno, dove, accolto da sant’Alfonso con affetto paterno, giunge il 24 dicembre 1749, per compiere il Noviziato nella Congregazione del SS. Redentore.

In questo periodo intenso di preghiere e mortificazioni, dove “fra gli altri confratelli di Noviziato fu come sole fra le stelle, eclissò tutti”, scrive un “Librettino” che rivela tutto il suo essere in Dio. In una pagina annota: “Domenico, quanto più presto ti darai tutto e solo a Dio, negando in tutto e sempre quanto tu vuoi, tanto più presto lo acquisterai, il tanto sospirato tuo Signore”. Il 2 febbraio 1750, festa della Presentazione del Signore, il Blasucci, con la promessa di essere Santo, veramente Santo, e rendersi tutto simile al Redentore Divino”, veste l’abito religioso. I voti di povertà, castità, obbedienza e perseveranza nella vocazione religiosa, li emette il 2 febbraio 1751.

Ormai Professo, colmo di tenacia, determinazione e costanza, avverte l’ansia di richiamare tutti alla contemplazione dell’amore del Signore. Il suo cuore è affascinato dall’Eucaristia, da Cristo che diviene presenza nel “Pane” per abitare in mezzo agli uomini e donarsi a loro.

Nel febbraio del 1751, raggiunge la casa religiosa di Pagani, in provincia di Salerno, per compiervi gli studi teologici che, spesso, saranno interrotti a causa dell’insorgere di una grave malattia: la tisi. Vivrà ancora poco tempo, ventidue mesi di sofferenze, ma anche di totale e nobile abbandono fiducioso in Dio. A Lui con amore, meditando la dolorosa passione di Gesù Cristo, donerà i suoi patimenti per la salvezza dellumanità, divenendo come il chicco di grano che, caduto in terra, muore e produce molto frutto.

La ricerca del recupero fisico lo costringe a continui spostamenti tra le case redentoriste dislocate in varie località della Campania e della Puglia dove, abitualmente, si riuniscono i missionari che allunisono con i compagni di studi, per la sua formidabile premura e rettitudine, lo definiscono “il san Filippo Neri”, “il san Stanislao Kostka”, “il redivivo san Luigi Gonzaga” “il Giovanni Berchmans”, poi proclamato santo. È “sommo nella modestia e profondo nell’umiltà; è incline alla preghiera, all’evangelizzazione, all’accoglienza e alla carità con zelo instancabile. Suscita diverse conversioni, conciliazioni e tanta letizia. È amato e ricercato dai superiori, dai confratelli e dal popolo, che gli manifestano lincondizionata stima e la viva gratitudine. Lascia ovunque l’ammirata ed entusiastica fama di santità.

A Deliceto, in provincia di Foggia, nella Comunità di santa Maria della Consolazione, incontra san Gerardo Maiella, confratello coadiutore, con il quale stabilisce una profonda e fraterna amicizia, rafforzata dalla promessa scambievole di recitare, ogni giorno e fino alla morte, un’Ave Maria alla Vergine Santa. Gerardo, all’epoca dell’incontro, attraversa un periodo di crisi, di desolazione e di tristezza. Sente ilcuore che scoppia ed è molto angosciato. Domenico, pregando intensamente il Signore con lo sguardo rivolto verso il cielo, gli traccia un segno di croce sul petto e Gerardo ritrova la pace come se mai avesse sofferto”.

Nei mesi successivi, le condizioni fisiche del Blasucci peggiorano considerevolmente. Nel semplice deglutire, sente come se due chiodi gli oltrepassassero l’esofago”. Accanto al suo letto, sul comodino, c’è una massima, sintesi della sua vita terrena: Volontà di Dio! Dio mio, fatemi adempiere in tutto la Vostra Volontà!”.

Con il trascorrere dei mesi, sente venir meno le forze, ma con il suo slancio e la sua fermezza nel Signore riesce a incoraggiare e favorire la vocazione, tra gli altri, del fratello maggiore Pietro Paolo, quasi a voler prolungare la propria vita nell’Istituto e attuare, per il suo tramite, gli obiettivi che avverte di non poter più realizzare. Pietro Paolo, dopo la morte di sant’Alfonso, sarà eletto Rettore Maggiore per i Missionari Redentoristi in Sicilia e alcuni anni dopo Superiore Generale della Congregazione del SS. Redentore, il terzo in ordine di successione al fondatore; il suo governo, che segue quello del cugino Francesco Antonio De Paola di Ruvo del Monte, durerà ventiquattro anni, dal 1793 al 1817; ne favorirà lo sviluppo estendendo la Congregazione religiosa in Polonia, Austria e Svizzera e per i suoi numerosi meriti i redentoristi lo considerano, dopo il Santo, il secondo fondatore dell’Istituto; morirà in “concetto di Santità”.

Domenico, logorato nel fisico ma sempre forte nello spirito, continua a rivolgere il suo cuore e la sua anima a Dio. Ai confratelli, frequentemente, ripete: “Intollerabile mi sarebbe il vivere senza la Croce, l’unica mia consolazione è la Croce, dimostrando che, all’appello dell’Amore Divino, l’unica risposta cristiana è: “ Sì, vengo. Eccomi ”.

La mattina del 2 novembre 1752, Commemorazione di tutti i fedeli Defunti, Domenico Blasucci, con il conforto dei Sacramenti e delle preghiere dei confratelli che affettuosamente sono accorsi intorno al letto, muore serenamente nella casa religiosa di Materdomini di Caposele, in provincia di Avellino e Arcidiocesi di Sant’Angelo dei Lombardi–Conza–Nusco–Bisaccia: ha tra le mani la corona del Rosario e il Crocifisso, il sorriso sulle labbra e lo sguardo mite rivolto all’immagine di Gesù, che ha fatto affiggere su una parete della sua celletta. È ancora studente in teologia ed ha soltanto vent’anni, sette mesi e ventotto giorni, di cui due anni, dieci mesi e nove giorni trascorsi nella Congregazione.

L’indomani si tengono le solenni esequie. La salma, prima d’essere tumulata accanto all’altare della Madonna della Potenza in un loculo scavato nella roccia, atto di sublime riverenza, è esposta in Chiesa, ancora per due giorni, per appagare la devozione popolare, che è divenuta fiduciosa e osannante.

Il 26 novembre 1752, per desiderio di sant’Alfonso, l’elogio funebre è celebrato anche nella casa religiosa di Pagani, dove padre Alessandro Di Meo così lo descrive: “Possiamo attestare che il nostro Domenico può dirsi il modello, l’idea, anzi l’anima del nostro Istituto”.

Sant’Alfonso, che sovente lo chiama “Santo”, riferisce agli studenti di Pagani: “Il nostro fratello Blasucci possedeva la vera scienza, poiché in tutte le cose non ha cercato che Iddio, e così ha fatto la morte di un santo. Studiate dunque perché dovete essere gli operai del Signore, ma prima di tutto studiate per farvi santi, come il nostro caro defunto”.

Il venerabile padre Paolo Cafaro, suo ultimo superiore e direttore, che all’ipotesi di un trasferimento verso un’altra Comunità s’è opposto con fermezza affermando “No, resti qui questa gioia di Paradiso!...” scrive in una lettera: “Del nostro Fratello Blasucci, di felice memoria, dico in generale ch’egli era un santo, che potevasi vivo canonizzare, come ho asserito più volte, anch’egli vivente. Mi pare che era eroico in tutte le virtù, perché era propriamente morto a tutte le passioni. Per modo che tutte le virtù parevano in lui come naturalizzate, e pareva stesse nello stato della giustizia originale... E tutto proveniva dall’eroica, tre volte eroica, uniformità alla volontà di Dio, la quale operava in lui quell’indifferenza in tutte le cose, nel patire e nel godere, nel morire e nel vivere... La vita e la morte erano in lui una cosa. Anzi più volte avendolo interrogato se secondo la passione desiderasse vivere o morire, sempre mi ha risposto – che secondo la passione desiderava morire –. Un atto d’impazienza in una infermità così penosa, come è stata la sua, io non l’ho potuto in lui osservare... Io, il quale son tenuto per critico, l’ho per santo, e me ne ho pigliato un po’ di veste per reliquia... e questo basta per canonizzare Blasucci... Domando la benedizione.

Il padre Bernardo Apice, scrivendo al padre Antonio Maria Tannoia, dichiara: “Era eroico nella povertà. Eroico nella purità… Eroico nell’ubbidienza… Eroico specialmente nell’umiltà, e nell’abnegazione di se stesso. Eroico nell’uniformità alla Volontà di Dio, e nel raccoglimento, il quale, si può dire costituiva la sua più cara e diletta virtù”.

Il padre Antonio Maria Tannoia nelle sue memorie annota “che Dio l’aveva fornito di una rara bellezza… che viveva nella giustizia originale… che faceva fiorire il giglio di sua purità, e nutriva il fuoco della divozione con crudelissime penitenze”. Conclude: “Dico in poche parole, che Domenico fu un Angelo d’innocenza, un Martire di penitenza, un Serafino di santo amore”.

L’iscrizione latina sottostante il dipinto ad olio su tela, realizzato nelle ore successive alla sua dipartita per ritrarne il volto, sintetizza nobilmente le sue pregevoli virtù: “Giovanetto di una santità consumata, si distinse in modo particolare per il suo amore alla penitenza, per la purezza di spirito, per il suo raccoglimento in Dio, per l’uniformità alla Divina Volontà, e per la sua carità ardentissima verso la SS. Eucaristia e la Beata Vergine Maria”.

Nel 1893 ha inizio la sua Causa di Beatificazione e Canonizzazione. Il 23 maggio 1906, in seguito al Processo ordinario informativo sulla vita e le guarigioni miracolose ottenute per la sua intercessione, Domenico Blasucci è proclamato “Venerabile” con Decreto del Papa San Pio X che lo definisce “Giovane angelico” e, nel 1907, la sua Causa è introdotta presso la Sacra Congregazione delle Cause dei Santi a Roma.

Il 4 giugno 1912 la Sacra Congregazione delle Cause dei Santi dichiara la “Validità ed il rilievo del Processo Apostolico sopra la fama di santità in genere” costruito nella Curia Vescovile di Conza della Campania, in provincia di Avellino, e il 12 dicembre 1922 conferma la “Validità del Processo Apostolico ed Ordinario per la Causa di Beatificazione e Canonizzazione” costruito nella Curia Vescovile di Nocera Inferiore, in provincia di Salerno.

Le sue venerate spoglie mortali, dopo le ricognizioni canoniche eseguite il 24 luglio 1929 e il 9 novembre 1996 nella casa religiosa di Materdomini di Caposele, dal 5 gennaio 2003 sono custodite nella navata sinistra della Basilica di san Gerardo Maiella a Materdomini di Caposele, a poca distanza da quelle del Santo e in una nuova tomba monumentale accanto a quelle del venerabile Paolo Cafaro.

I suoi fedeli, con la devozione e la fervida preghiera, continuano ancora oggi a evocare la sua purezza di spirito, le sue alte virtù e la sua spiccata Santità, affinché quest’“anima innocente come l’ha fatta Dio” possa risplendere dinanzi agli Altari ed essere venerata con i titoli

di Beato e Santo, così com’Egli è stato:

… Santo, veramente Santo, … tutto simile al Redentore Divino.

 

Ruvo del Monte, 2 novembre 2000

Commemorazione di tutti i fedeli Defunti

e 248° anniversario del pio transito e della nascita in cielo del venerabile Domenico Blasucci

Anno Giubilare, Anno Santo

 

Michele Donato Grieco

 

Nota

 

Questa biografia, dal 2 novembre 2000, riporta due sostanziali aggiornamenti:

- la variazione del luogo in cui sono custodite le spoglie mortali del Venerabile, dalla Casa dei Redentoristi in Materdomini di Caposele, in provincia di Avellino, all’antica Basilica di San Gerardo Maiella nella stessa località, avvenuta il 5 gennaio 2003;

- la variazione della toponomastica a Ruvo del Monte, in provincia di Potenza, da Via Sportico San Giuseppe a Via “Venerabile” Domenico Blasucci (Redentorista – 1732/1752), avvenuta l’1 ottobre 2006.

 

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Fonti

 

Bibliografia

 

Posizioni e articoli per i processi ordinari su la fama di santità, delle virtù e dei miracoli

del servo di Dio DOMENICO  BLASUCCI

Studente professo della Congregazione del SS. Redentore

di P. CLAUDIO BENEDETTI

Postulatore della Congregazione del SSmo Redentore

Roma, Tipografia Guerra e Mirri 1893

 

P. Di Coste Antonio d. SS. R. Cons. Gen.

Un giglio olezzante della famiglia redentorista ossia il Ven. Domenico Blasucci

Redentoristi S. Alfonso Via Merulana ROMA (123)

Soc. Tip. A. Macioce & Pisani Isola del Liri (Frosinone ) 1932

 

Archivio

 

Casa redentorista

Via Santuario, n. 27 – 83040 Materdomini di Caposele (AV)

 

Sitografia

 

Sito web ufficiale dell’Archivio Segreto Vaticano

Cortile del Belvedere 00120 Città del Vaticano

 

 

 

Vetrata istoriata situata a destra nella volta a botte della navata centrale della Basilica di San Gerardo Maiella a Materdomini di Caposele, in provincia di Avellino, in cui è raffigurato il venerabile Domenico Blasucci intento a tracciare un segno di croce sul petto dell’amico san Gerardo Maiella.

L’aureola che adorna il capo del Venerabile testimonia la fama di santità diffusasi rapidamente e con ammirazione quand’era ancora in vita, accresciuta con amorosa ed intensa devozione dopo la morte e confermata con l’introduzione della Causa di Beatificazione e Canonizzazione nella prima metà del 1900, periodo in cui è stata realizzata la stessa opera artistica.

 

 

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Nel 1812 è stato pubblicato il volume Vite dei Padri D. Alessandro Di Meo, e D. Angelo Latessa, e dei Fratelli laici Gioacchino Gaudiello, e Francesco Tartaglione della Congregazione del Santissimo Redentore descritte dal Padre D. Antonio Maria Tannoja; in appendice al volume sono anche riportate, rispettivamente a pag. 9 ed a pag. 15, le Notizie della vita dello Studente D. Domenico Blasucci del Ss. Redentore descritte dal P. D. Giuseppe Landi della medesima Congregazione e le Notizie sullo stesso soggetto raccolte dal P. D. Antonio Maria Tannoja.

Le biografie scritte dai padri Giuseppe Landi e Antonio Maria Tannoja sono state pubblicate, nei secoli scorsi, anche in francese, olandese, tedesco e, forse, spagnolo e sono state ristampate diverse volte. Questo ha permesso a tanti novizi e studenti redentoristi d’oltralpe, oltre a comuni fedeli, di conoscere ed apprezzare la vita, le virtù e le opere del Venerabile. La sua fama di santità si era moto diffusa in Belgio e, soprattutto, in Olanda, tanto che in tutte le case redentoriste il suo ritratto veniva ornato, con molta cura, nel giorno in cui si commemora la sua morte. Lo scrive padre Antonio Di Coste, d. SS. R. Cons. Gen., a pag. 342 e 343 nel suo volume Un giglio olezzante della famiglia redentorista ossia il Ven. Domenico Blasucci, Redentoristi S. Alfonso, Via Merulana ROMA, (123), Soc. Tip. A. Macioce & Pisani, Isola del Liri (Frosinone), 1932.

 

Visualizza gli Estratti biografici originali in formato pdf

 

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Fonte

 

Biblioteca

 

Biblioteca SantAlfonso Biblioteca della Casa Sant’Alfonso  della Congregazione del SS. Redentore

Gestione dell’Accademia Alfonsiana

Via Merulana, n. 31 – 00185 Roma

 

 

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Cenni biografici scritti da diversi autori religiosi e laici

 

Il Venerabile Domenico Blasucci

 

Come candido fiore che si apre alla luce del mattino, Domenico nacque il 5 Marzo 1732. Felice la patria, Ruvo del Monte in Lucania! e fortunati i suoi genitori Nicola Blasucci e Maria Carnevali!

Il fanciullo, carissimo a Dio, sembrava nato più per l’eternità che per la vita presente. Uscì dal grembo materno avvolto da una inconsueta membrana, e non appena ne fu liberato, apparve come un bambino bellissimo e grazioso: subito rivolse le braccia al cielo e le piegò sul petto; da ciò i presenti dedussero che avrebbe portato la croce di nostro Signore. Successivamente fu dato per morto, a causa della scarsità del latte che riceveva, ma poi tornò in vita con l’aiuto di Dio.

Quando rimase orfano di padre, la madre lo educò ad ogni forma di pietà; ed egli corrispondeva con zelo alle cure materne, conducendo una vita santa fin dall’uso di ragione. Evitava la compagnia dei cattivi compagni, dalla sua bocca non usciva mai una parola grossa; e se al suo orecchio di fanciullo arrivava qualche parola sconcia, ne appariva turbato e arrossiva.

Per tenere a freno gli occhi e gli altri sensi praticava penitenze. Pregava immobile per ore intere, spesso piangendo per la dolcezza, talvolta in estasi meravigliosa con la mente fissa in Dio. Dallo zio, in casa, apprese lettere, filosofia e le prime nozioni di diritto canonico.

Ma, appena capì di essere nato non per le realtà caduche e passeggere, ma per le realtà eterne, decise di non pensare più all’apprendimento delle lettere e delle scienze, ma al conseguimento della santità.

Perciò, non tenendo conto della voce del sangue e della carne, il 12 dicembre 1749 lasciò la casa paterna per entrare nella Congregazione del SS. Redentore. Accoltovi da S. Alfonso, indossò l’abito religioso il successivo 2 febbraio. Sotto la guida di P. Villani, un santo uomo, si consacrò al raggiungimento della perfezione, incoraggiato dalle eccelse virtù del Padre S. Alfonso.

Con sensibile sforzo cominciò a praticare lo stile di vita proprio della gioventù liguorina, ma fu assalito da una lenta malattia che le penitenze giornaliere, i digiuni, le veglie continue, i rozzi cilici, il poco sonno e le sanguinose discipline (flagellazioni) aggravarono progressivamente. Perché le forze del giovane, duramente provate, non peggiorassero ed egli potesse essere amorevolmente curato, S. Alfonso lo destinò a Deliceto, in Puglia. Il suo arrivo era stato preceduto da notizie tanto favorevoli che fu accolto a braccia aperte dai compagni. Vi rimase dal 5 settembre alla fine di ottobre del 1751 e questa permanenza rafforzò la generale opinione: infatti, sin dal primo ingresso in Congregazione, non venne mai meno allo stile di vita iniziato.

Era di carattere mite, affabile nel parlare, pronto all’ubbidienza, generoso nell’aiutare, zelante negli esercizi di pietà, sempre paziente, resistente all’assalto delle malattie, e si conquistò l’ammirazione e l’affetto generale.

Strinse amicizia profonda con il santo fratello Gerardo Maiella, il cui esempio brillava ai suoi occhi e la cui santità lo attirava fortemente. Una volta Gerardo, tormentato da una insopportabile aridità, incontrò Domenico e ne invocò l’aiuto e Domenico, tracciando un segno di croce sul di lui petto, subito gli restituì tranquillità e pace.

Per riprendere gli studi interrotti, su ordine dei formatori, si trasferì da Deliceto a Pagani. Qui, come giglio profumato tra i fiori di un giardino, si distingueva tra i giovani studenti per le sue virtù. Essi lo ritenevano un angelo, ma Domenico si reputava ben diversamente, ed ogni volta che guardava qualcuno dei suoi confratelli, egli era come sospeso tra rossore e gioia: infatti li riteneva santi, indegno di servirli.

Felice la Casa liguorina di Caposele che ebbe il privilegio di raccogliere gli ultimi respiri dell’angelico giovane e di custodirne il corpo per i posteri! Nel giugno 1752 essa accolse come ospite eccezionale Domenico.

In lui, frattanto, crescevano i sentimenti di un amore mai pago per Dio: di questo amore la sua anima era accesa, mentre il fisico ne era consumato.

I Padri e gli altri confratelli lo vedevano, vacillante per la magrezza, andare e venire al tabernacolo e restarvi a lungo in estasi. E sentendolo dire: “Che devo fare? Non proibitemi di visitare Gesù che mi chiama!”, a stento trattenevano il pianto.

Era ormai pronto per il cielo: il 2 novembre 1752 per il santo giovane fu il giorno propizio per entrare tra i cori degli angeli.

 

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Fonte

 

Bibliografia

 

Claudio Benedetti *

Album dei Servi di Dio della Congregazione del SS. Redentore, 1903

Traduzione dalla lingua latina a quella italiana di Padre Antonio Panariello, 1998.

 

* Presbitero professo e postulatore generale della Congregazione del SS. Redentore, comunemente denominato redentorista, dal 1890 al 1922.

 

 

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Venerabile Fratello Domenico Blasucci.

Caposele, 1752.

 

Il V. F. Blasucci nacque il 5 marzo 1732, a Ruvo del Monte. Entrò a sedici anni nella Congregazione. Come un altro Luigi Gonzaga, non ha mai contratto un qualsiasi contagio di peccato, e praticò tutte le virtù in grado eroico, al tal punto che, secondo la testimonianza del P. Cafaro, sembravano in lui come naturalizzate e lo si direbbe nello stato di giustizia originale.

Era, al dire di S. Alfonso, un santo che lo si avrebbe potuto canonizzare ancora vivente.

Una santità così elevata fu probabilmente il risultato di grazie eccezionali di cui fu oggetto, ma anche dell’eccezionale generosità con cui rispose.

Egli aveva scritto su un quaderno di propositi: «Un’anima dannata acquisterebbe a prezzo di milioni di anni di sofferenze un’opportunità per soffrire per amore di Dio, ed io, perché non dovrei essere animato a soffrire per questo stesso Dio?» Diceva ancora: «Per me, rinunciare all’osservanza perfetta, è rinunciare alla santità».

Morì il 2 novembre 1752 nel convento di Caposele, durante gli studi di teologia.

Il Nostro Padre S. Alfonso prese occasione dalla beata morte per dare una lezione ai cari Studenti: «La vera scienza consiste nel conoscere Gesù Cristo. A cosa serve la scienza se non conduce a Dio? Il nostro Fratello Blasucci, lo dico in tutta verità, ha posseduto la vera scienza, perché, in ogni cosa, ha cercato solamente Dio. Ha fatto la morte di un santo. Studiate dunque, poiché siete gli operai di Dio, ma studiate innanzitutto per diventare santi come il nostro caro defunto». – «Raptus est, ne malitia mutaret intellectum ejus». Sap. 4–11.

 

Professione: 2 febbraio 1751.

 

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Fonte

 

Bibliografia

 

Augustin Berthe *

Vita di S. Alfonso

Vol. I, Parigi 1900, pag. 502.

 

* Presbitero professo della Congregazione del SS. Redentore.

 

 

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Chierico Domenico Blasucci (1732–1752) – Italia.

 

Il 5 marzo 1732, a Ruvo del Monte, nasceva il ven. Domenico Blasucci, «giglio olezzante della famiglia Redentorista». Ne emanò la fragranza già sul nascere, quando la levatrice, liberatolo da un cordone carnoso che lo cingeva fortemente, disse alla madre: «State allegramente, perché non solo è nato un bel figliolo, ma un santo…». Infatti, al primo apparire alla luce, il bambino alzava in alto i teneri braccini e subito li ripiegava sul petto in segno di croce. Ricevé il Battesimo il giorno dopo la nascita. La stola candida della innocenza, di cui allora fu rivestito dalla grazia, la conservò poi sempre. Il suo Direttore spirituale poté scrivere a S. Alfonso: «È rimasto nello stato della innocenza battesimale». E il P. Tannoia testimonia: «Il bel giglio della purità germogliò nel servo di Dio fin dalle fasce, e vi si mantenne immacolato sino alla tomba».

 

Dal fratello di una zia, Don Lorenzo Fungaroli di Caposele, il quale narrava le meraviglie della missione predicata a quel popolo dal fondatore P. Alfonso De Liguori, ebbe la prima notizia della esistenza della Congregazione del SS. Redentore. Mentre quel signore parlava, tra sé medesimo ripeteva: «Sarò anch’io uno di essi; voglio divenire figlio di un tanto santo».

 

Nel dicembre 1749, fece domanda per l’ammissione al P. Villani, che si trovava in Atella e poi a Rionero per i Santi Esercizi; e il 21 dicembre, tra le lacrime della madre che, pur adorando la volontà di Dio, lo piangeva come morto, partiva da casa per giungere, il 24 dicembre, al noviziato di Ciorani. Vestì l’abito religioso il 2 febbraio 1750.

 

Frutto del suo studio per la perfezione fu un «librettino» di propositi, di massime, giunto a noi soltanto copiato e dimezzato. Sua virtù predominante fu l’amore alla penitenza, intesa non solo come mortificazione esteriore, ma anche come abnegazione del proprio giudizio, distruzione della stima propria, e lotta contro le passioni. S. Alfonso ebbe a scrivere su questo punto: «L’unico difetto in lui notato, se tale possa dirsi, fu una certa troppa avidità di mortificazioni».

 

L’anno seguente, nel giorno della Purificazione di Maria Vergine, emise la Professione religiosa. Seguirono gli studi nella Casa di Pagani. Non si arrestò la sua ascesa alla santità, con l’esercizio della presenza di Dio «fomentato dall’uso delle giaculatorie, così frequenti che, per quanto fossero gravi le distrazioni, veniva tosto rapito nel Signore».

 

Un male terribile lo minava da molto tempo: la tisi. Per curarla o ritardarne le conseguenze, i Superiori lo inviarono a Ciorani, poi a Deliceto, indi di nuovo a Pagani e finalmente la Madonna lo volle a Materdomini. L’ultimo periodo della inesorabile infermità fu quanto mai prezioso per la corrispondenza epistolare che il Servo di Dio teneva coi maestri e compagni. La offerta dei suoi patimenti e l’ardente desiderio di non lasciare deserto il suo posto nella Congregazione gli otteneva dal Signore la vocazione del fratello Pietro Paolo, il quale fu uno dei più eminenti soggetti dell’Istituto e meritò di essere eletto a secondo successore di S. Alfonso. «Ora muoio contento!» esclamava, ritenendo compiuta la sua missione sulla terra. Quando rese la bell’anima a Dio, accanto al Tempio di Maria, contava 20 anni, mesi 7, giorni 28. Era il 2 novembre 1752. Il P. Cafaro si era opposto al suo trasferimento in un clima migliore, dicendo: «No, resti qui questa gioia di Paradiso!...».

 

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Fonte

 

Bibliografia

 

Mario Gagliardo *

S. Alfonso – Rivista Mensile di Apostolato Alfonsiano

Pagani, Anno XXIII – N. 5 – Maggio 1952, pag. 71, 72 e 73;

 

Profilo biografico rivisto e corretto da

Francesco Minervino *

Nella luce di Dio, Redentoristi di ieri

Pompei, 1985, pag. 10 e 11.

 

* Presbiteri professi della Congregazione del SS. Redentore.

 

 

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Blasucci Domenico

 

BLASUCCI, Domenico, venerabile. Nacque a Ruvo del Monte (Potenza) il 5 marzo 1732 da Nicola e Maria Antonia Carnevale. Il 24 dic. 1749 entrò nel noviziato di Ciorani (Salerno), dove emise i voti religiosi il 2 febb. 1751. Morì non avendo ancora compiuto gli studi teologici a Materdomini (Avellino) il 2 nov. 1753, compianto da s. Alfonso e dai suoi primi compagni che lo avevano tanto ammirato per la sua santità. Il venerabile p. Paolo Cafaro, suo ultimo superiore e direttore spirituale di s. Alfonso e di s. Gerardo Maiella, così ne scriveva al fondatore tredici giorni dopo il sereno trapasso: «Egli era un santo che potevasi vivo canonizzare, come l’ho asserito io più volte, mentre egli era vivente. Mi pare che egli era eroico in tutte le virtù, perché era propriamente morto a tutte le passioni, per modo che parevano tutte le virtù come in lui naturalizzate e pareva che stesse nello stato della Giustizia Originale. Vi era in lui una totale universale aggiustatezza di azioni, cioè una totale giustizia che pare non possa considerarsi meglio di ogni gran santo. Ma tutto proveniva dalla eroica, tre volte eroica, uniformità colla volontà di Dio». Tale giudizio fu condiviso unanimemente da tutti i confratelli, i conoscenti e dallo stesso s. Alfonso che cercò di raccogliere notizie intorno alla vita e alle opere del giovane B., sicuro di vedere un giorno la sua canonizzazione. Invece, per molti motivi, la sua causa fu iniziata soltanto nel 1893 e solo nel 1907 fu introdotta presso la S. Congregazione dei Riti, dove ancora rimane presso la sezione storica.

 

BIBL.: G. Landi–A. Tannoia, Notizie della vita del Servo di Dio D. B., Napoli 1812 – Roma 1893; F. S. Cudone, Vita dell’ammirabile Servo di Dio Domenico Blasucci, Angri 1895; Positio super Introductione causae, Roma 1906; A. Di Coste, Un giglio olezzante della famiglia redentorista ossia il Ven. Domenico Blasucci, Roma 1932.

 

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Fonte

 

Bibliografia

 

Nicola Ferrante *

Bibliotheca Sanctorum

Istituto Giovanni XXIII nella Pontificia Università Lateranense

SO.GRA.RO. Società Grafica Romana, Via Ignazio Pettinengo, 39, 00159 Roma

Vol. III, Roma 1963, pag. 205 e 206.

 

* Presbitero professo e postulatore generale della Congregazione del SS. Redentore dal 1958 al 1986.

 

 

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Domenico Blasucci

modello e anima dell’Istituto redentorista

 

Domenico Blasucci, giovane redentorista dalla spiccata santità, si distinse particolarmente per l’amore alla penitenza, la purezza di spirito, l’unione con Dio e l’uniformità alla divina volontà, come anche per l’amore all’eucaristia e alla divina madre Maria. Nato a Ruvo del Monte il 5 marzo 1732, morì, ancora studente di teologia, a Materdomini di Caposele il 2 novembre 1752.

È il profilo che si legge sotto un pregevole quadro che lo rappresenta con lo sguardo mite rivolto al crocifisso, in piedi, davanti al tavolo di studio coperto di libri e strumenti di penitenza, tra i quali fiorisce un giglio, simbolo di castità.

Paragonato dai suoi contemporanei a san Luigi Gonzaga e a santo Stanislao Kostka, fu sincero amico di Gerardo Majella, al quale si legò fino alla morte con un patto di preghiera scambievole alla vergine Maria.

Con le sue lettere, i suoi consigli, e soprattutto con la preghiera, favorì la vocazione religiosa redentorista di suo fratello Pietro Paolo, che poi divenne il secondo Rettore Maggiore dell’Istituto. Il 23 maggio 1906 dallo stesso papa S. Pio X, che aveva elevato agli onori degli altari Gerardo Majella, fu dichiarato Venerabile.

A ottant’anni da questa data il suo Processo Apostolico, alquanto insabbiato, ha tutto il diritto di ritornare alla luce per una felice conclusione.

 

Domenico Blasucci e Gerardo Majella sono due stelle del firmamento redentorista.

Entrambi della diocesi di Muro Lucano, della stessa regione Basilicata, vissuti tra gli anni 1726 – 1755, di salute cagionevole, fragile e vita breve: Gerardo visse ventinove anni, Domenico quasi ventuno. Tutti e due, stroncati dalla tisi, ora dormono il sonno dei giusti nel santuario di Materdomini, dopo aver intrapreso il cammino verso la vita religiosa da Rionero in Vulture, crocevia di vocazioni per la Campania, la Puglia e la Lucania. Ambedue con uno zio sacerdote da parte materna: don Donato Antonio Carnevale per Domenico e padre Bonaventura Galella per Gerardo.

Anche il Blasucci come Gerardo resta orfano di padre in tenera età e nella mamma trova il più grande ostacolo per abbracciare la vita religiosa.

Domenico e Gerardo sono stati definiti due gemme del nascente Istituto redentorista. Il Blasucci nasce a Ruvo del Monte il 5 marzo 1732, proprio l’anno in cui a Scala (SA), presso Ravello, Alfonso de Liguori fonda l’Istituto del SS. Redentore per l’annuncio tra i poveri dell’abbondante redenzione di Cristo.

Il p. Antonio Tannoja, biografo di Alfonso, di Gerardo e dell’Istituto stesso, che aveva ricevuto l’invito dal Fondatore a stendere la biografia del Blasucci – e in seguito ad altri impegni costretto a lasciare il lavoro a livello di semplici appunti in margine a qualche lettera o ritagli di carta, senza dati cronologici e con tanti punti sospensivi –, così ne sintetizza la vita: “…Dio l’aveva fornito di una rara bellezza…; viveva nella giustizia originale…; faceva fiorire il giglio di sua purità e nutriva il fuoco delle devozioni con crudelissime penitenze… Dico in poche parole che Domenico fu un angelo di innocenza, un martire di penitenza, un serafino di santo amore”. E il p. Paolo Cafaro, peraltro poco avvezzo, come lui stesso ammetteva, a riconoscere santo chi era ancora vivente, scrivendo ad Alfonso de Liguori, diceva che il caro giovinetto era rimasto nello stato di giustizia originale e che si sarebbe potuto canonizzare vivente.

Ma per conoscere meglio il nostro Domenico e la sua fraterna amicizia con Gerardo Majella sarà meglio procedere con ordine.

 

Domenico Blasucci nasce in una onesta famiglia da papà Nicola e mamma Maria Antonia Carnevale. A pochi mesi è in grave pericolo di morte. Lo zio sacerdote, colto ed esperto in filosofia e scienze sacre, racconta come “già tutto si disponeva per l’esequiuccia e che il fratello maggiore Pietro Paolo era già andato in chiesa ad avvertire il sacrestano a dare il segno della campana, solito per la morte dei bambini”, quando ci fu un intervento miracoloso di san Francesco Saverio, di cui mamma Maria Antonia era devotissima.

Nel giugno del 1748 a Ruvo del Monte giungono i missionari di san Vincenzo de’ Paoli. Il nostro Domenico ha sedici anni; li ascolta ed inizia un’autentica vita devota, avvertendo un primo serio segno vocazionale. Chiede infatti di entrare nell’Istituto di san Vincenzo de’ Paoli ma, davanti al problema economico e al parere contrario della mamma, deve arrendersi.

Intanto deve abbandonare anche gli studi e dedicarsi all’agricoltura, in seguito alle critiche e alle pressioni del fratello Giuseppe, che poco digerisce lo studentello chiesa e scuola e che anzi definisce il galantuomo di casa.

Ma le vie della Provvidenza sono infinite. Un giorno sua zia, signora Giovanna Fungaroli, riceve la visita del fratello don Lorenzo di Caposele. Logico che il discorso cada sul santuario di Materdomini, dove da due anni si era stabilito un gruppo di missionari all’indomani di una santa missione guidata dallo stesso fondatore Alfonso de Liguori. Don Lorenzo, amico di Alfonso e dei suoi missionari, parla con trasporto e ammirazione del bene che operano questi apostoli del vangelo, della loro austerità e della testimonianza di vita. Il giovane Domenico ne resta affascinato e già si sente uno di loro, coinvolto nel loro apostolato per la salvezza delle anime.

Dopo il provvidenziale colloquio col Fungaroli comincia infatti a procurarsi alcune opere di Alfonso de Liguori, le Canzoncine Spirituali e le Massime Eterne.

Il progetto e l’avvio sembrano buoni. Ma come e quando avvicinare e parlare con questi religiosi?

Dalla lettura delle prime opere ascetiche di Alfonso ha capito che bisogna affidare tutto alla Vergine Immacolata.

Celebra così, con particolare fervore, la novena del dicembre 1749 nella chiesa dei conventuali di san Francesco. Non è ancora terminata la novena che si diffonde la notizia di una prossima missione dei Padri redentoristi ad Atella, poco distante da Ruvo. E durante l’ottava dell’Immacolata giunge la compagnia dei missionari, composta dai padri Andrea Villani (che in seguito, anche per via epistolare, guiderà il nostro Domenico), Margotta, Criscuolo e Angelo Latessa. Domenico si affida allora a un suo cugino e maestro, il sacerdote Giovanni Chiaia, economo curato di Rionero, per sondare e spianarsi la via. Logicamente il cugino, prima di avviare l’opera di mediazione, pretende il consenso della famiglia. Domenico confidenzialmente si rivolge a suo fratello Pietro Paolo che gli assicura il suo pieno consenso e appoggio. Don Chiaia ne è soddisfatto e tutti e tre si incontrano ad Atella col p. Villani. Questi però fa notare che c’è ancora un ostacolo: il patrimonio. Pietro Paolo stila su un semplice foglio la descrizione dei beni appartenenti all’intera famiglia, senza ripartizioni, si procura il certificato di battesimo e il 18 dicembre si presenta con Domenico a Rionero, dove la compagnia dei missionari si è trasferita per una rinnovazione di spirito. La partenza per il Noviziato di Ciorani (SA) resta fissata per il 21 dello stesso mese, con un appuntamento presso la Taverna di Calitri. Sono questi per Domenico tre giorni di travaglio interiore per superare il distacco dalla famiglia, dalla casa e soprattutto dalla mamma.

Gerardo Majella, ammesso nella casa religiosa di Deliceto otto mesi prima di Domenico, aveva dovuto far ricorso addirittura alla strategia della fuga.

Più tardi il fratello Pietro Paolo in una relazione sulla vocazione e la partenza di Domenico da Ruvo del Monte, così scriverà: “La casa restò in lutto. Mamma lo pianse per molti mesi e la gente del paese correva a consolarla, raccontando chi una virtù e chi un’altra; alcuni ne elogiavano la modestia, altri la mortificazione, altri i suoi talenti. Tutti lo ritenevano un santo”.

A Ciorani la comitiva giunge la vigilia di Natale del 1749 e Domenico, dopo un noviziato esemplare, emette i voti religiosi il 2 febbraio 1751. Vivrà ancora poco tempo, ventidue mesi di sofferenze ma anche di totale e nobile abbandono in Dio, peregrinando per le quattro comunità redentoriste allora esistenti: Ciorani, Pagani, Deliceto e Materdomini.

Nel febbraio 1751 il nostro Domenico raggiunge la comunità religiosa di Pagani per compiervi gli studi teologici.

 

Ma proprio qui a Pagani si manifestano in Domenico i primi sintomi di quella malattia che lo porterà alla tomba: prostrazione generale, inappetenza, aspetto pallido e macilento. “Sarà questione di aria, di clima”, pensa il fondatore don Alfonso, che ha già intravisto nel giovane la stoffa del santo. Gli fa pertanto interrompere gli studi e lo rinvia a Ciorani.

Anche qui, però, nulla da fare. Si prova allora con l’aria di Deliceto, in provincia di Foggia. E così il 3 settembre 1751, accompagnato dal p. Bernardo Apice di Castellammare di Stabia, a bordo di un calesse raggiunge la numerosa comunità di S. Maria della Consolazione, in Deliceto, guidata dal p. Cafaro e animata da Gerardo Majella. Più tardi il p. Apice riferirà ampiamente sul viaggio, definendolo un vero e proprio pellegrinaggio, intessuto di preghiere e penitenze.

La monumentale casa a 5 km dal paese, svettava nel verde di un bosco di lecci profumati, in beata solitudine. Il rettore p. Cafaro, con una punta di orgoglio gli da il benvenuto: “I nostri padri di Ciorani non erano degni di custodire un tale tesoro”. Poi si mette subito all’opera inviandolo a S. Agata di Puglia per una visita specialistica presso il dottor Boezio Del Buono. Questi ne intuisce il male, gli ordina la terapia giusta, ma capisce anche che si trova davanti un giovane straordinario, un santo Stanislao vivente.

Durante la permanenza a Deliceto incontra Gerardo Majella e con lui condivide la vita religiosa. Qui Gerardo c’era da due anni. Dietro una vaga promessa del Cafaro aveva lasciato Muro Lucano e mamma Benedetta in lacrime. Col lavoro poi e un noviziato esemplare aveva fugato ogni dubbio sulla propria utilità: in preghiera e in penitenza trascorreva ore nella grotta del beato Felice, scavata negli anfratti della vecchia costruzione, per prepararsi alla professione religiosa.

Tra Domenico e Gerardo nasce subito una profonda amicizia. L’occasione è data, racconta il Tannoja, da un momento di crisi che tiene Gerardo angosciato sommamente nell’interno. Gerardo svolge nella comunità il compito di sarto, in fondo la sua professione, e lo fa con competenza e disponibilità. Ma anche i santi, a volte, attraversano momenti di aridità, di desolazione, di tristezza. E Gerardo un giorno se ne sta muto, pallido, angosciato quando incontra il nostro Domenico.

- Gerardo, che avete?

- Sento il cuore che mi scoppia!

Domenico gli traccia un gran segno di croce sul cuore e Gerardo ritrova la calma, la pace, si sente come non mai avesse patito cosa alcuna. Dopo la morte del Blasucci svelerà egli stesso a Cesare Apostolico, suo confratello, la storia segreta di quell’incontro. In seguito l’amicizia diventa più forte, vincolata dalla promessa fatta davanti alla devota immagine della Consolazione di recitare scambievolmente, ogni giorno, fino alla morte, un’Ave Maria alla vergine santa.

Intanto Domenico, interrompendo gli studi, va incontro al pericolo di una vita priva di interessi. Per questo i superiori l’impegnano nell’attività apostolica e i missionari fanno a gara a portarlo con loro in predicazione per la recita del santo rosario, la catechesi ai ragazzi e soprattutto come testimonianza di fede, di preghiera. Il p. Biagio Amarante, un missionario secondo il cuore di sant’Alfonso, lo sperimenta addirittura come ultimo rimedio per la conversione dei peccatori più incalliti. “Andate a vedere quel santo che prega davanti all’altare – suggerisce il vecchio missionario durante la missione di Lancusi – e poi tornate da me!”. E questi, alla vista di un tale angelo, ritornano contriti e disposti alla riconciliazione con Dio e i fratelli.

Le cure, le attenzioni dei superiori, l’aria salubre gli consentono un sensibile miglioramento, tanto che verso la metà di novembre del 1751 può far ritorno a Pagani per riprendere gli studi.

Alfonso è il rettore della casa, mentre il p. Cafaro da Deliceto è passato a dirigere la comunità di Materdomini. Domenico riprende gli studi ma, nonostante le premure dei superiori e le cure mediche, dopo solo qualche mese il male si riaffaccia. E questa volta con sintomi più gravi. Nel marzo 1752 il dott. Salvatore Amarante gli fa nuovamente abbandonare gli studi, permettendogli solo brevi catechesi nelle parrocchie di Pagani e di Angri e di partecipare l’8 aprile alla santa missione di Lancusi. Ma il 23 dello stesso mese, proprio al termine della missione, gli proibisce tutto: studio, mortificazioni e lavori apostolici. Gli concede solo qualche gita distensiva alla vicina Madonna dei Bagni di Scafati e a Castellammare di Stabia, dal clima marino mite e salubre.

Intanto per il Fondatore la salute di Domenico è diventato un problema. Lui che invitava i superiori a vendere anche i calici dell’altare per curare i confratelli, ora per Domenico non trova altra soluzione che proporgli la comunità di Materdomini e affidarlo alle attenzioni del superiore p. Cafaro, già a conoscenza della precaria condizione fisica di Domenico.

A questo punto i biografi fanno osservare che Domenico non è quel tipo pesante che la malattia farebbe supporre, sempre insoddisfatto e in cerca di comprensione. Affronta invece le sofferenze con grande equilibrio interiore; spesso è lui che vivacizza la conversazione, creando quel clima di serenità nel Signore che favorisce la vita comune. Anzi tra i confratelli ci si trova tanto bene che da tempo, più volte, ha invitato suo fratello Pietro Paolo a lasciare il mondo e seguirlo nella vita religiosa.

A Materdomini trova una comunità accogliente e la paziente opera del dottor Nicola Santorelli, che sarà anche il medico curante di Gerardo Majella. “Mio Dio – ripete a un confratello che è venuto a visitarlo – non sono degno di tanto! Che cosa io sono che tutti devono incomodarsi per me? Quale barone infermo ha tante cose quante ne ho io? Qui medicine di ogni sorta, qui cioccolato mattina e sera, qui liquori…”.

Ma proprio a Materdomini comincia a intuire che i suoi giorni sono contati. Si rivolge allora con più insistenza a suo fratello Pietro Paolo, supplicandolo di abbandonare la famiglia e seguire la vocazione redentorista, quasi per prolungarvi la propria vita nell’Istituto e realizzarvi quanto egli non è in grado di fare.

Pietro Paolo in verità era attratto dalla vita religiosa, ma tentennava e dilazionava la partenza. L’8 febbraio 1752 Domenico gli invia una lettera convincente e rispettosa. “Mi sono consolato – scrive – del suo perseverante e fervoroso desiderio di lasciare il mondo, e di ritirarsi in questo santo luogo; ma il vederla tardare mi dà grande timore che V.S. perda la vocazione! Fratello stimatissimo, io la desidero santo, e gran santo, e Dio lo sa con quale grande desiderio! e perciò di cuore le dico a non dilungare una tale risoluzione”. L’ostacolo è, come al solito la famiglia, ma Pietro Paolo questa volta, con una movimentata fuga, abbandona la casa paterna, si rifugia a Ciorani e il 14 agosto 1752 veste l’abito religioso. Alla notizia il nostro Domenico esclama: “E ora io posso morire!”.

A Materdomini infatti, nonostante le cure più intense, il 2 novembre 1752, quando la liturgia commemora tutti i fedeli defunti, al dottor N. Santorelli non dice come al solito mi sento bene, ma mi sento meno bene. È la fine. Col conforto dei Sacramenti, del crocifisso, della corona tra le mani e delle preghiere dei confratelli accorsi intorno al letto, spira serenamente. Ha appena compiuto 20 anni.

Qualche giorno prima aveva pregato un confratello, che stava per recarsi a Deliceto, di ricordare a Gerardo Majella la promessa dell’Ave Maria e che da parte sua non ci aveva mancato un giorno.

 

Il padre A. De Meo, per l’elogio funebre tenuto a Pagani per desiderio di sant’Alfonso il 26 novembre, attinse a piene mani da un librettino manoscritto del Blasucci, consegnato poi al Tannoja, dov’è tracciato tutto il suo itinerario spirituale e i suoi ferventi dialoghi con Dio. L’illustre oratore cosi concludeva: “Posso attestare che il nostro Domenico può dirsi il modello, l’idea, anzi l’anima del nostro Istituto”.

L’intellettuale del Risorgimento italiano, Vincenzo Gioberti, nel suo Gesuita moderno definisce, con pessimo gusto, s. Luigi Gonzaga un tisicuccio da ricacciare nell’oblio insieme a tutti i suoi seguaci, come esseri deboli, inefficienti.

E invece questi, come il Blasucci, sono gli uomini forti e non i delinquenti, i violenti, gli usurpatori. La mortificazione per i santi è vita, non ricerca di autodistruzione; non è fine a se stessa, ma punta all’azione, al recupero della libertà spirituale, ai valori della persona nella sua interezza, umana e soprannaturale.

E perché questo principio possa risultare vincente e la virtù risplendere davanti agli uomini anche nella nostra era tecnologica, che promuove solo l’uomo produttivo e consumista, siamo certi che Gerardo Majella darà una mano al suo amico Domenico per la ripresa e un positivo sviluppo del Processo Apostolico.

 

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Fonte

 

Bibliografia

 

Alfonso Amarante *

Un amico di nome Gerardo

Editrice San Gerardo, Stampa Valsele Tipografica s.r.l.

83040 Materdomini (AV), 6 aprile 1999

Da pag. 47 a pag. 60.

 

* Presbitero professo della Congregazione del SS. Redentore.

 

 

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Ven. Domenico Blasucci

di Ruvo del Monte

 

Nacque a Ruvo del Monte (Potenza) il 5 marzo 1732 da Nicola e Maria Antonia Carnevale. Il 24 dicembre 1749 entrò in noviziato a Ciorani (Salerno) dove emise i voti religiosi il 2 febbraio 1751.

 

Morì non avendo ancora compiuto gli studi teologici a Materdomini (Avellino) il 2 novembre 1752. Compianto da S. Alfonso e dai suoi primi compagni che lo avevano molto ammirato per la sua santità.

Il venerabile P. Paolo Cafaro suo ultimo superiore e direttore spirituale di S. Alfonso e di S. Gerardo Maiella così ne scriveva al fondatore tredici giorni dopo il sereno trapasso: “Egli era un santo che potevasi vivo canonizzare, come l’ho asserito io più volte, mentre era vivente. Ma pare che egli era eroico in tutte le virtù, perché era propriamente morto a tutte le passioni, per modo che parevano tutte le virtù come in lui naturalizzate e pareva che stesse nello stato della Giustizia Originale. Vi era in lui una totale universale aggiustatezza di azioni, cioè una totale giustizia che pare non possa considerarsi meglio di ogni altro santo. Ma tutto proveniva dalla eroica, tre volte eroica uniformità con la volontà di Dio”.

 

Tale giudizio fu condiviso unanimamente da tutti i confratelli, i conoscenti e dallo stesso S. Alfonso che cercò di raccogliere notizie intorno alla vita e alle opere del giovane Blasucci, sicuro di vedere un giorno la sua canonizzazione.

 

Aggiungiamo, a questo punto, il ricordo dell’incontro che ebbe il nostro giovine studente con fratel Gerardo Maiella, luminosa testimonianza di come i santi si riconoscano e si amino.

La sera del 5 settembre 1751 arrivò a Deliceto, dove si trovava S. Gerardo un giovane religioso diciannovenne: Domenico Blasucci. Ripiegava dolcemente sul petto il volto pallido di adolescente malato, con gli occhi sempre raccolti sotto il velo delle palpebre. Gerardo lo vide e vederlo e amarlo fu la stessa cosa. Aveva avvertito il profumo straordinario della grazia che emanava da quel corpo verginale. Anche il giovine comprese subito la santità di quel laico dall’apparenza trasandata e distratta e lo amò come sanno amare i santi: in Dio. Perciò se ne andarono insieme a pregare davanti all’altare della Madonna, poi se ne uscirono all’aperto, lungo i margini del bosco investito dal sole al tramonto.

Due volti diafani, due espressioni diverse dallo stesso ardore verso il cielo. Il primo, Domenico Blasucci, era un fuoco contenuto, che arde nel profondo dell’anima, immobile nell’apparenza; Gerardo invece era una fiamma dai mille guizzi rapidi e brucianti. Emetteva di tanto in tanto certi sospiri dolorosi che lo facevano trasecolare.

 

“Fratello, hai male?” gli chiese Blasucci, Gerardo arrossì, voleva rispondere, ma una qualche cosa gli serrava ermeticamente la gola. Il giovine amico ne fu sorpreso e commosso, stese la mano cerea e gli tracciò sul petto un segno di croce. Allora Gerardo slargò il petto, in un respiro, si sentiva libero, completamente libero, e spiccò un salto di gioia.

Subito corsero a ringraziare la Vergine, e vicino al suo altare s’impegnarono solennemente fino alla morte alla recita reciproca di un’Ave Maria giornaliera. Fu questo l’anello della loro amicizia.

 

Per molti motivi la sua causa fu iniziata soltanto nel 1893 e solo nel 1907 fu introdotta presso la Sacra Congregazione dei riti, dove ancora rimane presso la sezione storica.

 

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Fonte

 

Bibliografia

 

A. M. L. Bta *

I Santi della mia Terra

Tipolitografia Oneto Circ.ne Gianicolense, 222/c – Roma, 23 gennaio 2000

Pag. 99, 100, 101, 102 e 103.

 

* Padre Antonio Maria Lavaia

Presbitero professo dei Chierici Regolari di San Paolo, comunemente denominato barnabita.

 

 

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Venerabile Domenico Blasucci

Chierico redentorista – Ruvo del Monte (Pz) 5 marzo 1732

+ Materdomini di Caposele (Av) 2 novembre 1752

 

Cresce virtuoso e pio, ancora adolescente aspira alla vita religiosa.

Deve aspettare per aiutare la famiglia in difficoltà economiche.

A diciassette anni entra nella Congregazione del SS.mo Redentore.

Studia teologia e trascorre ore in preghiera.

È legato da fraterna amicizia a San Gerardo Maiella, che ricorre a lui in un momento di prova spirituale.

Si consacra per sempre al Signore con la Professione religiosa il 2 febbraio 1751 e dopo pochi mesi si ammala di tisi.

“Volontà di Dio! Dio mio, fatemi adempiere in tutto la Vostra Volontà!”; in queste parole scritte su un biglietto che conservava c’è tutto il suo programma di vita.

Muore giovanissimo in concetto di santità.

 

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Fonte

 

Bibliografia

 

P. Guglielmo Alimonti OFM Cap. *

Vento impetuoso

A cura del:

Centro Regionale Gruppi di Preghiera di Padre Pio

Santuario Madonna dei Sette Dolori

Tel. e fax 085/411158

65125 PESCARA

E–mail: centrogruppipescara@yahoo.it

Vol. VI, pag. 164.

 

* Presbitero professo dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, comunemente denominato cappuccino o francescano, discepolo di san Pio da Pietrelcina.

 

 

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DOMENICO BLASUCCI. Venerabile, nato a Ruvo del Monte (Potenza) il 5 marzo 1732 ed ivi morto1 il 2 novembre 1752. Visse appena venti anni che furono dedicati all’esercizio completo della carità cristiana, dello zelo vivissimo sacerdotale2; da essere considerato come il Luigi Gonzaga dei Missionari Redentoristi.

Infatti fu studente Redentorista cioè della congregazione del SS. Redentore, fondata nel 1732 da S. Alfonso dei Liguori. I Redentoristi miravano e mirano tutt’ora ad una intensa attività missionaria fra il popolo e fra gli infedeli.

Novizio nel 1750 ecclissò con le sue virtù i confratelli maggiori e più poveretti di lui.

Visse a Ciorani (frazione di Mercato S. Severino – Salerno), Deliceto (Foggia), Pagani (Salerno) e Caposele (Avellino) e visse in una forma celestiale di estasi continua.

Parco nel mangiare, ogni giorno prendeva appena un paio d’once di cibo (appena 60 o 70 grammi), condito con assenzio (estratto di una pianta aromatica).

Innocente come un bambino, appena battezzato, il venerabile Blasucci, flagellava con asprezza i peccatori che si commovevano e divenivano compunti al solo vederlo in missione.

Fu amico di S. Gerardo Maiella di Muro Lucano e discepolo dell’austero P. Cafaro, che notificava a Sant’Alfonso la morte dell’angelico giovane lucano, affermando: «È stato eroico in tutto, tanto che si sarebbe potuto canonizzare vivente».

La sua causa di beatificazione è stata introdotta durante il pontificato di SS. Pio X.

 

1 Ivi morto riferito a Ruvo del Monte, in provincia di Potenza, non è corretto, in quanto il Venerabile è deceduto a Materdomini di Caposele, in provincia di Avellino.

2 Il Venerabile non era un presbitero, in quanto è morto ancora studente in teologia.

 

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Fonte

 

Bibliografia

 

Lorenzo Predome *

LA BASILICATA (LUCANIA) Notizie Geografiche, Storiche, Folcloristiche, delle Attività Agricole della Regione **

Dedalo Litostampa – Bari, 1964

4) Proposti per la Beatificazione, pag. 283 e 284.

 

* Direttore didattico, Medaglia d’Oro dei Benemeriti dell’Istruzione Popolare (sulla copertina);

** Testo per le biblioteche scolastiche, magistrali e per gli alunni della 1^ classe della scuola media unica (sul frontespizio).

 

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Si riportano due articoli tratti dalla rivista Spicilegium Historicum, pubblicazione dell’Istituto Storico della Congregazione del Santissimo Redentore, edita con approvazione ecclesiastica.

Il primo testo descrive le complesse modalità affrontate dal venerabile Domenico Blasucci, con l’apporto del fratello maggiore Pietro Paolo e del cugino don Giovanni Chiaia, per recarsi da Ruvo del Monte a Ciorani, per compiere il noviziato; il secondo delinea l’intenso sostegno umano e spirituale che il Venerabile offre alla vocazione del fratello Pietro Paolo.

 

1. – Memorie

Copia pubblica del Processo ordinario di Nocera dei Pagani del Servo di Dio Domenico Blasucci, f. 427 ss.

 

Verso la fine di detta Novena [dell’Immacolata del 1749] Domenico ebbe notizie che in Atella, paese sei miglia lontano da Ruvo era andata la Missione dei Padri del SS. Redentore. Egli prendendo una tale occasione così facile di trattare il suo affare per una gran provvidenza di Dio, e speciali favore della sua intercedente Maria, secretamente a tutti di casa scrisse una lettera a suo fratello cugino D. Giovanni Chiaia, che faceva il Curato di anime in Rionegro poco distante d’Atella, acciocché s’interponesse presso detti Padri per lui e con ogni impegno cercasse farlo ammettere fra loro. D. Giovanni li rispose, che non ardiva dar menomo passo in questo affare, se prima non sapeva che vi era il consenso di tutti di sua casa.

Allora Domenico vedendosi angustiato e costretto di palesare la sua intenzione a quelli di casa, che senza dubbio gli contrastavano una tal mossa, prudentemente si chiamò in segreto un giorno suo fratello Pietro che era a lui maggiore, e con cui ci aveva più confidenza, e li fece vedere la suddetta risposta avuta da D. Giovanni; lo pregò di scrivergli, come era suo, e di tutti di casa sommo gusto che Domenico applicasse a questo altissimo e sicurissimo stato di salute, e perciò pigliasse tutto l’impegno per farlo sortire. Pietro a tal notizia si mostrò a prima faccia un pò mal contento e ripugnante al suo desiderio, sì perché li dispiaceva vederlo fuor di casa, come ancora per lo dispendio ed interesse, che credeva correrci sopra le forze della casa. Ma che? Tosto l’insorse nell’animo un grave rimorso, che li suggeriva: Dunque vuoi opporti ad una chiamata di Dio? Non vuoi con tanto poco incomodo cooperare al bene di tuo fratello, che vuol darsi a Dio? E chi sa, se Dio voglia farlo santo per questa via? Ah no! Non voglio che manchi per me.

Infatti fece poi la lettera a D. Giovanni, e con quella non solo dava il consenso suo e di tutti, ma lo pregava che trattasse l’affare con tutto l’impegno possibile. D. Giovanni subito scrisse, che si portassero in Atella Domenico e Pietro per parlare coi Padri, e ciò accadde infra l’ottava della Concezione di detto anno.

Andarono tutti e due in Atella, dicendo alla gente di casa, per non farla sospettare, che volevano andare a sentire la Missione, che D. Giovanni l’aveva mandati a chiamare. I Padri erano il Padre D. Andrea Villani maestro dei Novizi, il Padre Margotti, il Padre Criscuoli, e D. Angelo Latessa.

Giunsero Domenico e suo fratello in Atella, dove andarono a dirittura in Chiesa, dove i Padri confessavano, e quel giorno si faceva la Comunione generale; colà ritrovarono Don Giovanni che maneggiava l’affare, e li portò dal detto Padre Villani che tanto si consolò in vedere il nuovo soggetto della sua Congregazione. Compiti gli esercizi nella Chiesa, il detto Padre chiamò Domenico e suo fratello e li portò la mattina a mangiare con lui nelle casa dove abitavano i Padri; la qual cortesia e affabilità grande del Padre vieppiù ligò il cuore di Domenico, e li accese maggior desiderio di vedersi ammesso tra soggetti sì Santi di questa Congregazione.

Fu esaminato ed approvato. S’accordò un poco di dilazione per lo pagamento dei ducati venticinque che ci volevano per la spesa degli abiti. Tutta la difficoltà fu quando il Padre Villani disse che ci voleva il patrimonio. Questa parola fu tuono, che scosse ed avvilì il suo fratello, ma non Domenico, poiché quello diceva: noi siamo in casa due Chierici,152 che per mancanza dell’intero Patrimonio, non possiamo essere ammessi all’ordinazione; come è possibile fare il patrimonio al terzo che è secolare e minore degli altri?; né pare espediente spogliare i primi per vestire ecclesiastico l’ultimo.

Così sconfidando del felice riuscimento dell’affare andava insinuando a Domenico detto suo fratello nel ritorno al paese; ma Domenico diceva che Iddio ci aveva da provvedere, e sperava che suo zio, o altri parenti l’avrebbero fatta la carità maggiore, perché era a semplice titolo e la Congregazione non n’esigeva l’usufrutto. Ritornati a Paese fecero inteso del tutto il loro zio l’Arciprete Don Donato Antonio Carnevale a cui solo avevano palesato l’affare e la buona intenzione, prima di andare a trovare i Padri in Atella, e questo l’aveva raccomandati con una sua lettera al Padre Margotti; ma per lo patrimonio parimente si afflisse, non trovando modo di rimediarsi.

Finalmente si fece la Fede di Battesimo, e suo fratello altro non fece per lo patrimonio, che fare di propria mano una semplice copia di corpi patrimoniali a lui stesso assegnati nel patrimonio suo e così faceva apparire in quella semplice carta, che li fratelli tutti rinunciavano a Domenico quelli beni e li costituivano il patrimonio, ma era una carta apposticcia, pensando di poter bastare quella per fare apparire il patrimonio che serviva a titolo come si è detto, ma in fatti poi non valse niente e si fece con lo speciale aiuto di Dio, come andava fatto.

Con questa copia di patrimonio e fede di Battesimo tornò Domenico solo a ritrovare i Padri che d’Atella erano passati a Rionegro per fare la rinnovazione di spirito, e fu forse il diciotto Dicembre 1749. I Padri accettarono tutto, e conclusero che per i ventuno di quel mese suddetto si partisse da sua casa e si facesse trovare alla taverna di Calitri dove si affronterebbero i Padri, e così se ne andrebbero a dirittura in Ciorani.

 

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152 Pietro Paolo e Francesco.

 

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Fonte

 

Bibliografia

 

Salvatore Giammuso (†), CSSR

Pietro Paolo Blasucci sino al 1761

Spicilegium Historicum Congregationis SSmi Redemptoris

Annus LII, 2004, Fasc. 1, Collegium S. Alfonsi de Urbe

Via Merulana n. 31, 00185 Roma

Autorizzazione del Tribunale di Roma N. 310 del 14 giugno 1985

Documenti, pag. 203 e 204.

 

 

12. – Relazione della vocazione di Pietro Paolo Blasucci.

Copia pubblica del Processo ordinario di Nocera dei Pagani del Servo di Dio Domenico Blasucci, 435 ss.

 

Fu in gran parte la felice memoria del fratello Blasucci [Domenico] cooperatore alla vocazione di suo fratello [Pietro] alla stessa Congregazione del Santissimo Redentore: poiché partendosi egli dal secolo il 21 dicembre 1749 per la Congregazione del Santissimo Redentore disse il giorno antecedente a detto suo fratello Chierico di ordini minori: ancora tu, quando sarai ordinato suddiacono potrai ritirarti all’istessa Congregazione, a cui rispose: appresso vedremo. Partito che fu, restò questo pensiero fisso in mente di suo fratello, che stava dubbioso, e incerto a risolversi; il primo effetto che tuttavia li cagionò nell’animo fu la risoluzione e il proposito di cominciare a vivere con edificazione, e apparecchiarsi a quella eminente vocazione con un tenore lodevole di vita.

Oltracciò la carità, e lo zelo del Servo di Dio facevali premura per assicurare la vocazione di suo fratello, ed in effetto li mandò da Ciorani luogo del suo noviziato alcuni librettini di massime eterne, e un libretto intitolato: Avvisi spettanti alla vocazione Religiosa, operetta del Padre Rettore Maggiore. E a fine con tal mezzo di porgerli anche da lontano aiuti, e consiglio in materia tanto gelosa, e poco dopo un altro libretto della visita di Gesù Cristo Sacramentato, e finalmente due tomi delle glorie di Maria, quasi per legarlo d’ogni parte colle catene della divozione del Santissimo Sacramento e di Maria, e conservarli la vocazione.

Insomma fra lo spazio di due anni e mezzo, che durò la dilazione di eseguire la vocazione, egli non cessò colle orazioni continue a Dio e farlo raccomandare anche dagli altri Padri e fratelli della sua Congregazione, affinché l’avesse presto strappato dal mondo; e anche con lettere, che spesso scriveva a suo fratello, nelle quali lo pregava a non dare tempo al tempo, e con San Girolamo una volta mi scrisse: Herenti in solo naviculae funem magis rescinde quam solve; ora li suggeriva i mezzi per conservarla, or la regolata divozione, affinché non facesse come suol dirsi la corsa dell’asino, or la fuga delle vane conversazioni, or altri sentimenti.

Ma perché le lettere sue si leggevano in casa di suo fratello alla presenza di tutta la famiglia, che ripugnava a ogni piccolo sentore di tal vocazione, che fece? Fece una volta una letterina inclusa secretamente nella lettera comune che scriveva alla casa, e in quella letterina diceva a suo fratello sentimenti nobilissimi per inanimarlo alla vocazione, e fra gli altri diceva: oh se sapessi, che vuol dire stare alla casa di Dio! Io talvolta mi trovo tanto contento della mia gran sorte, che provo tanti giubili, che vorrei, se mi fosse lecito, andar ballando, e saltando di gioia per tutta la stanza, e andar baciando le mura della cella.

Di più mi diceva: che Signore, che Principe, che Re, che Papa, non cangerei per mille mondi la sorte mia, fratello mio, li diceva, io provo qui quello che nel mondo non si crede, cioè nella Religione si godono due Paradisi, e mille altri sentimenti. E insinuava a chi consegnava la lettera sua che la facesse pervenire secretamente a suo fratello. Insomma egli colle sue lettere infocate, e piene d’unzione era il mantice, con cui soffiava la freddezza, e la trascuraggine di suo fratello, anzi il Signore talvolta si serviva di dette lettere per accenderlo al fervore, e ravvivare il di lui spirito decaduto. Parimente cooperò col suo esempio; poiché Iddio sempre li metteva avanti gli occhi di suo fratello l’animo generoso del Servo di Dio in abbandonare giovanetto ogni cosa, e la sua codardia in restarsene invischiato tra le sozzure della terra, che un giorno quello sarebbe stato Santo, ed esso dannato nell’inferno, e mille altri pensieri, che alla fine lo vinsero, e diedero l’ultima mano alla vocazione.

Alla fine nell’anno 1752, al mese di giugno la felice memoria del Servo di Dio fu mandato dai suoi Superiori alla casa di Caposele a ragione della sua infermità. Per tale occasione suo fratello andò a Caposele sotto pretesto di vederlo, e conchiuse l’affare della sua vocazione.

 

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Fonte

 

Bibliografia

 

Salvatore Giammuso (†), CSSR

Pietro Paolo Blasucci sino al 1761

Spicilegium Historicum Congregationis SSmi Redemptoris

Annus LII, 2004, Fasc. 1, Collegium S. Alfonsi de Urbe

Via Merulana n. 31, 00185 Roma

Autorizzazione del Tribunale di Roma N. 310 del14 giugno 1985

Documenti, pag. 213 e 214.

 

c dc d

 

 

Si riporta la descrizione della grande tribolazione interiore vissuta da san Gerardo Maiella nell’estate del 1751, dell’evento prodigioso compiuto dal venerabile Domenico Blasucci a beneficio del Santo nel Convento di Santa Maria della Consolazione a Deliceto, in provincia di Foggia, e del temperamento dei due confratelli redentoristi.

Il Blasucci ed il Maiella sono due giovani con il cuore colmo di Dio, che abbandonano le proprie famiglie ed i pochi beni terreni di cui dispongono per seguire Gesù Cristo, vivere secondo il Suo Vangelo e divenire santi. La profonda amicizia che li lega è certamente un incontro di luci per i giovani nostro tempo.

Il testo è tratto dal volume Storia Meravigliosa di S. Gerardo Maiella di padre Nicola Ferrante, IV Edizione riveduta e corretta, stampata negli Stabilimenti della Valsele Tipografica srl – Materdomini – Avellino, 1980.

L’autore, al 12° capitolo dal titolo L’Amicizia dei Santi, alle pagine 115, 116, 117 e 118  scrive:

 

[…] Il santo si trovò improvvisamente avvolto da una fitta cortina di tenebre interiori, con tutti i fenomeni che sogliono accompagnare la notte dell’anima: stanchezza, disgusto spirituale e timore ossessivo del peccato. La preghiera, la contemplazione non lo mettevano più a contatto con Dio: lo facevano approdare in una oscurità, in una nuvola che, mentre gli toglieva Dio dagli occhi, eccitava la sua brama di vederlo e conoscerlo. Ed era questa brama, questo desiderio insoddisfatto e impotente di Dio che gli generava nel cuore l’angoscia penosa, il terrore e la contraddizione interiore. Certo, per noi profani, è difficile comprendere l’amarezza della prova, ma i santi che l’hanno sperimentata, ci assicurano che è tra le più terribili: un vero purgatorio in terra.

Gerardo passò in questo stato la festa dell’Assunta, arido come la campagna dei dintorni, screpolata dalla canicola e cominciò la cara novena della Natività di Maria. Ma né la funzione serale, né i suoni e i canti, né le preghiere e le penitenze raddoppiate, riuscirono a soffocare la voce che dall’interno sorgeva a rimproverargli le proprie colpe. Era una visione nuova, lucida e fredda: la sua anima gli appariva nuda e piena di brutture. Dio lo sentiva come giudice, anzi come giustiziere, e, tentato di disperazione, ripeteva a se stesso: «Anche l’inferno è poco per me!».

Ma la sera del 5 settembre, arrivò a Deliceto, con il chierico Bernardo Apice, un religioso appena diciannovenne: Domenico Blasucci. Ripiegava dolcemente sul petto il volto pallido di adolescente malato, con gli occhi sempre raccolti sotto il velo delle palpebre. Gerardo lo vide e vederlo e amarlo fu la stessa cosa: aveva avvertito il profumo della grazia che emanava da quel corpo verginale. Anche il giovane comprese subito la santità di quel laico, dall’apparenza trasandata e distratta, e lo amò come sanno amare i santi: in Dio. Perciò andarono insieme a pregare davanti all’altare della Madonna: due volti diafani, due espressioni diverse dello stesso ardore verso il cielo. Il primo, Domenico Blasucci, era un fuoco contenuto che arde nelle profondità dell’anima, immobile all’apparenza; Gerardo, invece, era una fiamma dai mille guizzi rapidi e brucianti, ma una fiamma che gemeva come sopraffatta dalla sua stessa potenza distruttrice. Perciò emetteva, di tanto in tanto, certi sospiri dolorosi che lo facevano trascolorare.

«Fratello, ti senti male?» gli chiese il Blasucci qualche giorno più tardi incontrandolo nel corridoio.

«Oh sì, rispose, il mio cuore scoppia, non ne posso più!» e la voce finì in un gemito.

L’amico commosso gli tracciò una croce sul petto che si slargò in un profondo respiro. Il santo era libero, completamente libero e spiccò un salto di gioia. Subito corsero a ringraziare la Vergine e, ai suoi piedi, s’impegnarono solennemente fino alla morte alla recita reciproca di un’Ave Maria giornaliera. Fu questo l’anello della loro amicizia.

Eppure mai due caratteri furono così dissimili: il Blasucci, compassato e modesto, s’imponeva a prima vista all’attenzione degli altri; mentre ci voleva un po’ di buona volontà per cogliere, sotto la superficie bizzarra, la santità di Gerardo, sempre folle, sempre estroso nell’amore. Ma questi due caratteri, umanamente inconciliabili, si compresero e si armonizzarono perfettamente in una visione superiore di carità, operando insieme un bene immenso con lo spettacolo delle loro virtù. Ciò avvenne specialmente nel seguente mese di ottobre, quando numerosi sacerdoti della diocesi di Lacedonia affollarono il collegio per gli esercizi spirituali. Li guidava il loro vescovo mons. Amato. Costui non poteva staccare lo sguardo da quell’adolescente con le braccia piegate costantemente sul petto. Lo voleva ogni mattina a servirgli la messa: vicino a quell’angelo di cui nessuno conosceva il colore degli occhi, gli sembrava di potersi accostare meno indegnamente all’altare. Ma nei tempi liberi, andava ad osservare il giaciglio di Gerardo con quei teschi schierati sul pavimento e ne ripartiva edificato e atterrito.

[…] Con lui partiva anche il Blasucci, quella figura mingherlina di adolescente malato, dal viso bianco e verginale e dal cuore innamorato di Dio.

Gerardo lo salutò l’ultima volta ai piedi della Vergine e lo salutò mentalmente ogni giorno con la recita dell’Ave Maria.

Dopo appena dodici mesi, il Blasucci, consumato dalla tisi, ma molto più dall’amore di Dio, se ne volava al cielo, ricco di meriti. Era il 2 novembre 1752: aveva venti anni. Ma, poco prima di morire, tramite un confratello di passaggio, ricordava all’amico la promessa e soggiungeva: «Io ho adempiuto fedelmente la mia!».

L’Ave Maria di Gerardo, ne siamo sicuri, lo accompagnò nel grande trapasso (1).

È questa l’amicizia dei santi: qualche cosa che sfiora appena la natura e l’incatena a Dio per l’eternità.

 

(1) Per le relazioni tra il Santo e il Ven. Blasucci vedi: Di Coste ANTONIO, Un giglio olezzante della Famiglia Redentorista, Roma, 1932, pag. 231 e segg..

 

* Presbitero professo e postulatore generale della Congregazione del SS. Redentore dal 1958 al 1986.

 

 

 

Biografia di padre Paolo Cafaro, presbitero, con in appendice la biografia di fratello Domenico Blasucci, studente, entrambi redentoristi ed oggi venerabili. Il volume in lingua tedesca è stato pubblicato nel 1887.

 

 

 

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